Diffidate dai luoghi comuni. Gli italiani sono raccoglitori e riciclatori formidabili di rifiuti. È recuperato il 79% dei rifiuti, una percentuale che i pessimisti cronici non conoscono ma che il mondo ci invidia.
Ci sono inadeguatezze profonde. Ma regioni arretrate come la Sicilia e gli impianti di trattamento dei rifiuti dati alle fiamme si affiancano ad alcune delle eccellenze ambientali e tecnologiche più avanzate al mondo.
Un’eredità antica – gli etruschi di Populonia riciclavano il ferro e rigenerando gli stracci usati si produceva la carta su cui Aldo Manuzio stampava le Cinquecentine – che porta l’Italia in testa nel comparto del riciclo, dei macchinari per la lavorazione delle plastiche usate o con i centri ricerca di Novara e Ferrara.
L’Italia non ricicla solamente gli imballaggi della raccolta differenziata dei cittadini (il 67% è avviato a riciclo), come le bottiglie di plastica, il vetro dei vasetti, l’alluminio delle lattine, la carta dei giornali, l’acciaio dei barattoli o il legno delle cassette. Non c’è solamente lo scarto chiamato umido, oppure organico, oppure biologico. Nella gestione dei rifiuti ci sono circa 10mila aziende.
Ci sono il ricupero e il riciclo dei cosiddetti Raee (rifiuti da apparecchi elettrici ed elettronici), come i televisori e le lavatrici; ci sono le batterie e gli accumulatori, 3,5 chili a testa l’anno. C’è la rigenerazione dei lubrificanti usati, che al 99% diventano basi per nuovi oli; ci sono le 133mila tonnellate di tessuti rigenerati per esempio dall’industria pratese; e il rottame di ferro divorato dalle acciaierie dell’Alta Italia. Nel ricupero e del riciclo ci sono i circuiti privati che raccolgono i bancali di legno della logistica e i teli di politene dell’agricoltura o degli imballaggi industriali. Oppure è il caso del ricupero dei fanghi dei depuratori, riutilizzati come concime (a volte con contestazioni dei cittadini delle zone in cui ciò avviene).
In tutto, un giro d’affari stimabile sui 23 miliardi di euro. Non a caso gli altri Paesi che devono dotarsi di sistemi di raccolta e riciclo, come la Romania, studiano il caso Italia con il modello creato attorno al consorzio nazionale di riciclo imballaggi Conai.
Ma se gli italiani raccolgono e se c’è l’industria di riciclo, in Italia (e in Europa) è debolissimo il mercato a valle. I prodotti rigenerati non piacciono molto. Fino a poche settimane fa lo sfogo era la Cina, verso la quale partivano navi cariche di carta da macero, vetro, plastiche e altri materiali pronti per una nuova vita. Ma dopo anni di inquinamento eccessivo, il Paese asiatico sta imparando a raccogliere e riciclare e non ha più bisogno delle materie di scarto dell’Europa. Chiude le frontiere. E getta nel panico l’industria italiana della rigenerazione.
Per esempio il Regno Unito, Paese che raccoglie moltissima carta da macero ma che a differenza dell’Italia ha una magra capacità di assorbirla, devia verso la Germania i materiali da riciclare, e la Germania invade l’Italia con materie o con prodotti finiti da riciclo. I valori crollano, il mercato si satura, i magazzini si riempiono. In qualche caso non c’è modo di liberare i piazzali ingombri di residui selezionatissimi di qualità: montagne facile preda degli incendi. E in Italia è raro a causa delle opposizioni locali lo sbocco più opportuno diffuso in tutta l’Europa del Nord, cioè l’uso dei materiali selezionati come combustibile di alta qualità per cementifici e impianti di teleriscaldamento al posto di combustibili pesanti di origine petrolifera.